Un’esistenza nuova (Lc 20,27-38)

L’episodio evangelico mette in scena l’incontro di Gesù con un gruppo di sadducei, coloro che rifiutavano la risurrezione dai morti. Lo scopo della loro domanda è di mettere in imbarazzo Gesù. Con un esempio concreto, cercano di mostrare che l’idea della risurrezione è ridicola ed è estranea alla Scrittura, e cercano di dimostrarlo attraverso un esempio ricavato dalla legge di Mosè (cf. Dt 25,5-10).

Nella sua risposta Gesù cita sorprendentemente Es 3,6, che è un testo su Dio e non sulla risurrezione. Gesù conduce il discorso alla radice, cioè alla rivelazione del Dio vivente e alla sua fedeltà: se Dio ama l’uomo, non può abbandonarlo in potere della morte.

Ma la risposta di Gesù polemizza anche con quei farisei, che concepivano la risurrezione in termini materiali, prestandosi in tal modo all’ironia degli spiriti più liberali, ironia di cui il racconto evangelico offre un ottimo esempio: una donna ebbe sette mariti, nella risurrezione di chi sarà moglie? Gesù afferma che la vita dei morti sfugge agli schemi di questo mondo presente: è una vita diversa perché divina ed eterna; verrebbe da rassomigliarla a quella degli angeli (cf. v. 36).

Si può aggiungere un ultimo, importante aspetto. Il Vangelo di Luca si rivolge anche a destinatari provenienti dal mondo ellenistico, che non accettavano la risurrezione del corpo: il corpo è la prigione dello spirito e la salvezza consiste, appunto, nel liberarsene. Il pensiero greco è fondamentalmente dualista, e parla volentieri di «immortalità», ma non di risurrezione. Di fronte a questa mentalità l’evangelista si preoccupa di spiegare che la risurrezione non è un prolungamento dell’esistenza presente o la rianimazione di un cadavere, ma un salto qualitativo. Un’esistenza nuova. (Tratto da don Bruno Maggioni)

Gesù è il Tempio (Lc 19,45-48)

La lettura di oggi mette in evidenza l’importanza del Tempio (di Gerusalemme) e mostra come l’interpretazione cristologica di questi versetti, trasforma un luogo di fede nella fede in una persona. Gesù, infatti, trovandosi al Tempio di fronte a Giudei che non onoravano i veri motivi per cui salire in questo luogo di preghiera, mise in crisi la loro struttura mentale e di fede, equiparando il Tempio di mattoni alla Sua persona.

Gesù compie una trasformazione straordinaria perché converte lo sguardo di fede di quelle persone, e anche il nostro, verso il vero luogo da adorare: Lui e la sua Risurrezione. Ricordiamoci che non siamo più legati ad uno spazio fisso, morto, ma ad una persona, viva, che ci rende vivi al presente. Buona giornata a tutti.

Quali responsabilità? (Lc 19,41-44)

Ora il Signore Gesù è davvero vicino a Gerusalemme; è così vicino che vede la città e questa vista gli fa fare quelle considerazioni che lo rattristano. Gerusalemme non ha compreso ciò che porta alla pace, o meglio ancora “chi” porta alla pace: il Cristo. Gerusalemme pensa di poter fare da sé, come noi uomini pensiamo di potercela cavare con le nostre forze, ma poi cadiamo in ideologie. E quella pace di cui parla l’uomo non coincide più con la vera pace, che è la Sua, ma con una assenza di guerra, che seppur tanto, è troppo poco.

E nemmeno quella ci sarà, perché il Signore predice una catastrofe su Gerusalemme, che poi è una disfatta dei suoi abitanti, oltre che della città. Il tentativo di una pace che non provenga dall’alto, dall’ascolto della Sua Parola, dall’agire il Suo stile, si ridurrà – dice Gesù – in assedi e distruzioni, non solo delle pietre del tempio, ma anche delle pietre vive che costituiscono il popolo di Israele. Pochi hanno riconosciuto “la pace”, pochi sono riusciti a vedere in Cristo e nella Sua vicenda la Salvezza della vita e del mondo intero. Anche oggi, forse, pochi vedono in Cristo questa possibilità di Salvezza totale e cercano di salvarsi da sé poiché il Cristo è nascosto ai loro occhi. Chiediamoci perché e se in questo, noi cristiani, abbiamo qualche responsabilità. Buona giornata a tutti.

Il Signore si fida di noi (Lc 19,11-28)

Oggi il Signore ci raggiunge con una parabola, detta delle dieci mine, che è piuttosto nota e che viene riportata non solo nel vangelo di Luca, ma parallelamente, in un altro dei vangeli sinottici, quello di Matteo, con il nome di parabola dei talenti.

Spesso questa parabola viene interpretata, per lo più dalla credenza popolare, come la parabola nella quale il Signore chiede di mettere in mostra i propri talenti, cioè le proprie capacità. D’altra parte, ad una lettura attenta, resta difficile comprendere fino in fondo che cosa significhi che vengano moltiplicate o raddoppiate le capacità di una persona.

È più semplice, come riporta l’interpretazione coraggiosa di qualche esegeta, associare i talenti (o le mine), che sono delle unità di misura, alle responsabilità, ovvero ad un compito che, come i talenti, ha un certo peso.

È proprio vero che chi si assume delle responsabilità e si impegna a portarne il peso, verrà poi premiato, se è onesto, con altre responsabilità. Questo perché dietro a tutto ciò non vi è soltanto l’impegno e la bravura, che non sono la parte preponderante, ma la fede in ciò che ci viene affidato. Ciò che abbiamo tra le mani ci è dato per dono e non per merito, e possedere tante responsabilità è essere custodi di qualcosa che non ci appartiene, ma di cui dobbiamo avere cura.

La nostra storia (Lc 19,1-10)

Oggi ascoltiamo la storia di un pubblicano molto noto: Zacchèo. Questo uomo, come tutti i pubblicani, non era ben visto dai suoi concittadini, e il motivo di questa reputazione era proprio quella bassezza di cui parla il Vangelo. Nel racconto, infatti, è scritto che Zacchèo voleva vedere chi fosse Gesù, ma non gli era possibile a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Una statura certo fisica, ma anche morale ed esistenziale.

Probabilmente il desiderio profondo di Zacchèo era quello, non solo di vedere, ma anche di incontrare Gesù e di stare con Lui, per raccontargli della sua statura e della sua volontà di operare una scelta di vita, abbracciando la buona notizia. Questo uomo aveva infatti deciso in cuor suo di accogliere la vita di Gesù, e il primo passo da lui compiuto fu appunto quello di guardarlo.

E come sempre accade nella vita di fede, quando il desiderio di incontrare Gesù è profondo e vero, è Lui stesso che ti viene incontro, e così è stato per Zacchèo. Il Signore alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».

La storia di Zacchèo è un po’ la nostra storia, poiché anche noi sappiamo di essere peccatori e desideriamo che il Signore venga a salvare la nostra miseria, e mediante la Sua via, giunga a sanare il nostro debito: per questo siamo disposti a farlo entrare nella nostra dimora interiore. La storia di quest’uomo ci insegna che occorre essere sempre persone di speranza, e mentre noi, nonostante tutto, raccontiamo le nostre miserie al Salvatore, Lui trasforma la nostra esistenza in una meraviglia, cioè in una vita completamente volta a Lui. Che la fede di Zacchèo sia un po’ la nostra fede e che la sua tenacia e determinazione, diventino le nostre.